Negli ultimi anni, i fatti di cronaca hanno spesso descritto Brescia come una città assediata dalle baby gang, tra risse, atti di microcriminalità e disagio giovanile. Ma i dati raccolti dalla Polizia Locale di Brescia, presentati durante un convegno del Forum Italiano per la Sicurezza Urbana (FISU), offrono una visione più articolata del fenomeno. Secondo l’analisi degli esperti, non si tratta di bande strutturate, ma di gruppi fluidi di giovani che condividono condizioni di disagio sociale, spesso privi di riferimenti educativi e di supporto adeguato.
I numeri del fenomeno: chi sono i ragazzi coinvolti?
La ricerca, condotta con il supporto dell’Università degli Studi di Brescia, evidenzia che molti dei giovani fermati sono minori non accompagnati o ragazzi di seconda generazione, spesso privi di un contesto familiare solido. L’età media dei ragazzi coinvolti si aggira tra i 14 e i 17 anni, mentre la nazionalità varia, con una significativa presenza di giovani di origine straniera, ma anche di italiani cresciuti in situazioni di marginalità sociale.
I luoghi più a rischio e i reati più diffusi
Le zone della città più soggette a episodi di violenza giovanile sono il centro storico e alcune aree periferiche, dove si registrano risse, furti, vandalismo e piccoli reati legati alla microcriminalità. Tuttavia, a differenza delle vere baby gang, questi gruppi non hanno una struttura gerarchica né un’organizzazione criminale definita: si tratta piuttosto di aggregazioni spontanee di ragazzi che cercano un senso di appartenenza.
Il parere degli esperti: disagio sociale e prevenzione mancata
Secondo il dottor Valerio Gerardini, psicologo della tutela minori nel distretto del Sebino, la crescente aggressività tra i giovani è spesso il risultato di un disagio esistenziale profondo, legato a fragilità familiari, difficoltà scolastiche e mancanza di opportunità. Anche Gian Guido Nobili, Coordinatore nazionale FISU, sottolinea che l’assenza di strategie preventive adeguate ha contribuito all’aumento di questi fenomeni. Interventi educativi e sociali mirati potrebbero ridurre il rischio che questi giovani entrino in circuiti devianti più strutturati.
Conclusioni: oltre l’allarmismo, servono soluzioni concrete
L’analisi dei dati mostra che l’etichetta di “baby gang” non descrive correttamente la realtà di Brescia: i giovani coinvolti non fanno parte di gruppi criminali organizzati, ma sono spesso ragazzi in difficoltà che si ritrovano per strada a causa della mancanza di alternative. Per affrontare il problema non basta la repressione, ma servono politiche di prevenzione e inclusione sociale, in grado di offrire opportunità educative e di crescita ai ragazzi più vulnerabili.